di Kos Tedde
Galvanizzato dalla mostra di Pericoli, scendo le scale dell’uscita e mi ritrovo nel cortile di Palazzo Reale. Devo rimettermi in fila per accedere alla seconda tappa: “Realismo Magico”.
La pioggia leggera continua. Due signore a fianco discutono della differenza tra zona bianca, gialla, arancione. “Ormai non cambia molto”, azzardo. Nel frattempo venditori ambulanti di ombrelli sciamano avanti e indietro. Non puntano al nostro gruppo sparuto, ma alla fila per Monet Opere dal Musée Marmottan Monet di Parigi che deborda in piazza Duomo: l’Impressionismo trionfa ancora.
Eccomi dentro. Qui sull’allestimento domina l’oscurità, uniche luci quelle puntate sui quadri. Ho imparato a conoscere questa fase dell’arte italiana contemporanea – quella sostanzialmente tra le due guerre – in una serie di mostre alla Fondazione Magnani Rocca. Dopo l’avanguardia storica e prima degli sconvolgimenti del secondo dopoguerra. Quindi non così a la page, vissuta oggi come un arretramento conservatore coinciso con la parabola fascista. E, invece…
La prima parte è dominata dalla figura di Felice Casorati (1883-1963). I suoi ritratti formalmente impeccabili raccontano la Torino dell’imprenditoria, del mecenatismo, delle arti; in qualche modo descrivono quelli che anche in Italia erano i ruggenti Venti.
Il realismo magico è “ritorno all’ordine” che mette insieme primitivismo, la lezione degli Antichi Maestri italiani del Quattrocento con rappresentazioni così perfette ed evocative da risultare sinistre: qualcosa sta accadendo, ma è fuori scena, potenza figurativa perturbante che dialoga, ad esempio, con il cinema a venire e, allo stesso tempo, comunica la distanza di una linea temporale inabissata, negletta, sconfitta da un mondo diretto da tutt’altra parte.
Per certi versi lo stesso avveniva in Germania con la Nuova Oggettività di cui si danno esempi in mostra. In questa fase transitano Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Arturo Martini e Gino Severini. Qualche altro nome: Antonio Donghi, Ubaldo Oppi, Achille Funi, Carlo Levi, Mario e Edita Broglio.
Ho scelto l’orario di pranzo: i pochi con cui ero entrato mi hanno seminato. Mi aggiro solo nei grandi spazi. In una mano tengo lo smartphone per gli appunti, nell’altra il ricevitore per l’audio guida, sulle spalle lo zaino: una figura non proprio rassicurante per le guardiasala di cui sono l’unica preoccupazione attuale. La seconda parte della mostra è dominata, almeno per me, da Cagnaccio di San Pietro (alias di Natalino Bentivoglio Scarpa, 1897-1946) e non solo per il nome. Suo uno dei quadri chiave dell’allestimento: “Dopo l’orgia”, tre corpi nudi (in realtà la stessa modella vista da punti di vista diversi) stesi a terra, sfatti tra bottiglie di champagne, mazzi di carte, mozziconi di sigarette. Sfacelo e spossatezza morale: non proprio l’apologia della “dirittura morale” del regime fascista. Che infatti non apprezzò e tentò di emarginare l’artista di cui la mostra milanese dà altri mirabili saggi e che, per colmo di paradosso, in una biennale veneziana di metà anni Trenta si vide acquistato, contro la propria volontà, un quadro di contenuto “proletario” da un visitatore particolare: Adolf Hitler.
immagine in evidenza (dettaglio): Felice Casorati, Silvana Cenni, 1922
Foto di Pino Dell’Aquila © Felice Casorati