di Alberto Zanetti
Una delle più avventurose realtà del teatro italiano di oggi: gli spettacoli di Frosini/Timpano ci parlano di storia e memoria, autobiografia collettiva e personale. Con molteplicità di linguaggi, ironia e talento del paradosso. Sabato 5 febbraio saranno al Teatro al Parco di Parma per la nuova parte della stagione delle Briciole. Presentano l’atteso “Ottantanove”, la cui uscita è stata ritardata dalla pandemia. “Ottantanove” parla di rivoluzioni a cominciare da quella “originale”, la francese. E, naturalmente, arriva a interrogare il nostro presente. Ne abbiamo parlato con gli autori Elvira Frosini e Daniele Timpano.
Come presentereste la vostra ricerca a chi non vi conosce e, soprattutto, a chi non è abituato ad andare a teatro?
Difficile rispondere. Semplicemente facciamo teatro, siamo attori e drammaturghi e parliamo del presente, di quello che ci succede, che abbiamo negli occhi e nel corpo oggi, nel presente, tutto quello che ci colpisce, incuriosisce, emoziona, frustra o fa rabbia tutti i giorni, ma per farlo spesso utilizziamo la storia, il passato, sia come argomento sia soprattutto come materiali. I nostri testi sono pieni anche di materiali culturali: altri testi con linguaggi anche molto differenti tra loro, musiche spesso rare, riecheggiamenti di film visti, saggi letti e persino barzellette stupide. In scena c’è spesso molto poco, lo spazio vuoto con pochi elementi scenografici, con molto lavoro invece sulle luci e sullo spazio. Sono lavori con moltissimi strati, pienissimi di spunti, se vogliamo “colti”, ma che cerchiamo sempre di mettere in comune con gli spettatori con calore e con leggerezza. Nonostante la serietà delle questioni, sono spettacoli sempre molto accessibili per tutti e molto ironici, se non comici.
I vostri spettacoli ci hanno parlato del caso Moro, del colonialismo italiano, dei coniugi Ceausescu, del corpo di Mussolini, di robot giapponesi e futurismo… Come si differenzia “Ottantanove” rispetto a questo percorso? O è una specie di summa visto che ha l’ambizione di misurarsi con la parabola della “modernità?
C’è indubbiamente una continuità di percorso. Non si differenzia in maniera sostanziale dai nostri lavori precedenti, come direzione e come sguardo, e non crediamo sia una summa dei nostri lavori, ma certo è uno spettacolo secondo noi molto maturo e radicale, insieme di approfondimento di alcune questioni e insieme di rilancio da un punto di vista formale: c’è un maggiore lavoro sul suono, c’è per la prima volta con noi un terzo attore in scena e ci confrontiamo con una questione larghissima, immensa, il mito della democrazia, più che con una singola storia che sia facilmente raccontabile.
Siamo abituati a concepirvi come una coppia, ma questa volta siete in tre: com’è nata la collaborazione con Marco Cavalcoli, storico attore di Fanny & Alexander?
Conosciamo il lavoro di Marco da sempre. Pur avendo più o meno la nostra età è in qualche modo un esponente della generazione teatrale appena precedente la nostra, quella anni ’90. Insomma, quando facevamo i nostri primi spettacoli ci capitava di vedere i lavori già maturi di Fanny & Alexander. Ci è sempre piaciuta moltissimo la sua leggerezza, la sua precisione, la sua versatilità, ed anche, in fondo, la sua aria da eterno minorenne, che è un po’ come ci sentiamo anche noi. Volevamo assolutamente lavorare con un terzo attore, per spezzare la dinamica a due, per lavorare su ritmi e spazio in maniera parzialmente differente, e per dare anche un segno di apertura della nostra compagnia apparentemente bicellulare. All’inizio eravamo un po’ indecisi se questa terza figura dovesse essere un attore o un’attrice, se dovesse essere più giovane o più vecchio di noi o se non potesse essere un coetaneo. Tutte scelte possibili, che orientavano il nostro testo in maniera differente. Abbiamo scelto quasi subito Marco, che si è messo a nostra disposizione con entusiasmo ed intelligenza. La nostra maggiore soddisfazione è quella di essere riusciti ad essere un vero terzetto affiatato in scena, tre figure sullo stesso piano, tutte essenziali al lavoro, con un linguaggio comune ma anche con tre cifre estremamente riconoscibili.
Da poco è uscito un libro dello storico Enzo Traverso “Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia” che nella sua ricerca si fa guidare dalla concezione di Walter Benjamin: rivoluzione come “balzo della tigre”, evento che sorvola il tempo, fonde i piani di passato e futuro e lo sovverte… Sembra che oggi siamo lontanissimi da una simile prospettiva: l’entusiasmo latita… Che ne dite?
E che ne diciamo? Il saggio di Traverso non era ancora uscito quando preparavamo il lavoro ma sicuramente intendiamo il rapporto tra 1789 e 1989 come apertura e chiusura di una fase, e l’Ottantanove del Novecento come inizio simbolico della nostra tragedia personale, quella di persone destinate a vivere, invecchiare e morire con un unico orizzonte, quello del liberismo e delle ciance postmoderne sulla fine della storia, che poi non è finita per niente ma questa è un’altra brutta storia (anche se in fondo anche questo è uno dei temi di fondo del lavoro). Sì, è vero, l’entusiasmo latita, ma deve esserci del fuoco sotto tutta questa cenere, della luce sotto questa miseria, se sentiamo questo bisogno di parlare di rivoluzione e troviamo la forza di prendere di petto queste questioni che ormai paiono appassite.
La possibilità (o la necessità…) della rivoluzione è anche un “problema” teatrale, in particolare per il teatro di oggi… Ma proviamo a immaginarla da un’altra prospettiva. Non pensate che in questa fase difficilissima anche il pubblico dovrebbe fare uno scatto, divenire un soggetto più attivo, non solo spettatore, ma quasi militante nella sua partecipazione all’evento artistico e culturale?
È uno dei temi di “Ottantanove”, sia il ruolo e la funzione del teatro che quella del pubblico, ed è una questione in realtà tutt’altro che nuova, visto che ne ne dibattevano già a metà del ‘700 i vari Rousseau, Diderot e d’Alembert. Da un lato quello che dici sullo spettatore attivo, quasi militante, è giusto, bello e vero e condivisibile, e ci vengono in mente tanti progetti di coinvolgimento del pubblico nelle programmazioni (la Konsulta a Modena o il progetto Visionari del Festival Kilowatt) o progetti come La casa dello spettatore di Giorgio Testa o bandi europei che parlano di audience development, ma anche singoli spettatori “eroici” come Stefano Romagnoli o Carlo Pignatti, che rispettivamente da Foligno e da Milano partono e percorrono continuamente l’Italia per vedere spettacoli e concerti e conservano biglietti e locandine e cartoline. Questo è molto bello. Da un altro punto di vista, però, crediamo che non basti la militanza degli spettatori a risollevare il teatro dalla marginalità culturale in cui è tenuto in questo paese in cui nessuno spettacolo teatrale entra mai in nessun dibattito culturale e nulla sposta, se non per pochissimi, rispetto al percorso involutivo in cui il paese è sprofondato. In più, ci pare che nel dover mettere sul trono, anziché su una sedia o una comoda poltrona, gli spettatori, nel dargli tutta questa importanza, se non proprio piccolo “potere”, pur di averli in platea a vedere uno spettacolo, ci sia qualcosa di sbagliato ed il rischio di creare delle piccole comunità di mostri egocentrici e narcissici come il cretino sul lettino nella pubblicità di Alexa della Amazon di quest’anno, che svaccato sul suo lettino a bordo piscina interrompe le prove di un concerto di Mozart chiedendo a Wolfgang di suonargli qualcosa “di più allegro” da inserire nella playlist “allegria”. Un abominio, insomma.