Collezione Maramotti, Reggio Emilia: Studio Visit
Speciali

Tarwuk e “Studio Visit”, scoperte alla Collezione Maramotti

Divagazioni domenicali tra le due mostre temporanee della sede espositiva reggiana

di Kos Tedde

Visitare una mostra verso l’ora di pranzo: condizione ideale. Si rimane soli, o comunque sparuti, come se lo spazio – piccolo o grande – fosse organizzato per voi.
La tranquillità favorisce un privilegio: smarrirsi tra le opere, le proprie ossessioni personali e ciò che sta tra le due; ci si dimentica del pasto domenicale.

“Ante Mare et Terras” di TARWUK

E così può succedere di essere, in qualche modo, premiati. Ad esempio, imbattersi in quello che si credeva l’ultimo giorno di programmazione di “Ante Mare et Terras”, prima personale italiana di TARWUK (Bruno Pogačnik Tremow e Ivana Vukšić) alla Collezione Maramotti (prorogata fino al 31 luglio: bene).

TARWUK, “Ante mare et terras”, veduta di mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia (foto Dario Lasagni)

Nell’ampia Pattern Room – di cui un lato, a vetri, guarda un’area esterna dell’ex struttura industriale con cortili, aiuole, spazi verdi e lontano, sul fondo, uno squarcio di via Emilia – quattro opere si materializzano in un ambiente vuoto e spoglio. 

Il termine “scultura” non è forse il più appropriato. Dopo l’impressione iniziale e avvicinandosi, infatti, le convinzioni si diradano: assemblaggio, molteplicità di tecniche e materiali (come recita la didascalia del foglio di sala: argilla, ferro, gesso, acrilico, monetine, pelle di coyote riciclata, caffè, denti umani, protesi dentarie, reliquie della BQE, Brooklyn–Queens Expressway, impronte di Mario Diacono), sovvertimento di forme e spazialità, impatto visivo esplicito e, allo stesso tempo, arcano. 

Collezione Maramotti, Reggio Emilia: TARWUK, Ante mare et terras
TARWUK, Tužni Rudar, 2018 (foto Dario Lasagni)
Collezione Maramotti, Reggio Emilia: TARWUK, Ante mare et terras
TARWUK, Tužni Rudar, 2018 (foto Dario Lasagni)

Queste figure che non si possono non definire straziate sembrano sul punto di emettere un grido che, però, non esce mai. Si vedono teste e arti (non al “posto giusto”, sfondati, attraversati da elementi metallici): sono umani passati attraverso una mutazione spaventosa frutto di misure concentrazionarie, polluzioni, guerre? Oppure esito di una qualche evoluzione? O, ancora, conseguenza di un punto di vista eccentrico alieno alla specie? Anche se nel titolo si parla di un prima

In realtà l’impressione fantascientifica è contraddetta dai colori umili, spenti, terrosi e da alcune pose: uno specchio in cui l’essere si rimira mentre a terra giacciono rose dal colore delicato; una specie di legame/meccanismo che lo avvince a una minuscola sedia; un arrancante slancio (di fuga?) verso la parete. Come se, nonostante tutto, si agitasse una qualche vitalità malinconica.

TARWUK, Otsego_Bay009, 2020 (foto Dario Lasagni)
TARWUK, Otsego_Bay011, 2020 (foto Dario Lasagni)

In altra sala, a corollario, una serie di opere realizzate durante il lockdown. La coppia – croati, cresciuti durante la guerra degli anni ’90 – da anni si è trasferita a New York. Qui la pandemia ha precluso l’uso dello studio. Dalla dimensione del confinamento sono usciti questi piccoli quadri dalle tecniche diverse che, da un lato confermano (la fluidità di figure “mutanti”…), dall’altro inseriscono nuovi elementi come il colore.

La collettiva “Studio Visit”

TARWUK sono anche tra i protagonisti dell’altra mostra temporanea Studio Visit (prorogata al 27 marzo) per la quale Collezione Maramotti ha chiesto a dieci artisti, già ospiti di sede e facenti parte della collezione, di raccontare il proprio spazio di lavoro – fisico e mentale – in relazione con la produzione.
Il periodo pandemico ha influito su questo sguardo introverso? Probabilmente, anche se l’incipit è affidato alla “Sineddoche” (1976) di Claudio Parmiggiani per poi passare a Benjamin Degen, Luisa Rabbia, Enoch Perez, Barry X Ball, Mark Manders, Andy Cross

Opere e materiali di Matthew Day Jackson, TARWUK, Tom Sachs (foto Dario Lasagni)

I nostri preferiti? 

  • La scomposizione analitica (diagrammi, palette di colore, ecc.), ma quasi allucinatoria nella sua razionalità di Daniel Rich per ricreare architetture e visioni urbane dipinte – qui la Torre Velasca di Milano – che sono pensiero sulla metropoli e i suoi impercettibili sommovimenti; 
  • la saletta cinematografica allestita da Tom Sachs dove si mostra uno spassoso documentario sulle regole vigenti nel suo studio newyorchese, ironica (?) apologia all’organizzazione e divisione del lavoro, pure artistico e intellettuale;
  • la concezione nomade di Matthew Day Jackson dello studio e l’inquieta e sinistra eleganza del suo dittico (“Disburdened Flesh”, un quadro: da un ramo pende afflosciata la “pelle” multicolore, filata a lana, di un apostolo della Sistina michelangiolesca su un fondo nero, plastico, “stellato”, quasi glamour; di fronte l’assemblaggio di “Purgatorial Reponse”: gli elementi concreti – testa, arti, bacino e sterno, scheletrificati – della stessa figura scomposti su una panchina nera).

All’uscita notiamo compiaciuti che all’accettazione (qui l’ingresso è gratuito) ci sono due pubblicazioni in distribuzione: accanto ad Art Tribune, c’è Tipo Magazine.


immagine in evidenza: Studio Visit, opere e materiali di Daniel Rich