mostra "I Capannoni a Parma. Storie di persone e di città"
Speciali

Parma e i capannoni

Conflitti sociali, repressione, idee di città: la mostra al Palazzo del Governatore, visitabile fino al 25 aprile, restituisce visibilità e concretezza a una storia spietata ed esemplare

di Alberto Zanetti

Parma, piazza Garibaldi. La torre del Palazzo del Governatore con le sfumature gialle dei suoi intonaci si staglia nitida su un cielo reso di un azzurro profondo da folate gelide.

Tocca alla “città nuova” pagare un tributo di memoria a quella “vecchia” anche se i due termini, come si impara appena entrati nella mostra “I Capannoni a Parma. Storie di persone e di città” con relativo catalogo di MUP Editore a cura di Paolo Giandebiaggi e Margherita Becchetti, capovolgono la cronologia storica e questa inversione spiega già molto della vicenda.

Chiunque sia nato da queste parti – o vi abbia semplicemente frequentato scuole e università – si è imbattuto in un’apostrofe, ora sprezzante ora canzonatoria, scaduta nel senso comune eppure memore di una remota soperchieria: “capannone” per persona rozza, rumorosa, triviale, violenta.

foto da www.facebook.com/centrostudimovimenti.parma

Questa mostra, realizzata da Centro Studi Movimenti e Università di Parma, ne racconta l’origine e il decorso con ampia illustrazione fotografica, documentaria e video, ricostruzioni di materiali (abiti, attrezzi, oggetti domestici…) e d’ambienti, pannelli descrittivi sobri, chiari, diretti che nulla concedono alle enfasi identitarie del “come eravamo”.

I capannoni erano case con la forma a capanna dove erano stati spostati (deportati?) gli abitanti più poveri e indomiti di quell’Oltretorrente – la città vecchia, appunto – divenuto celebre per l’antagonismo sociale (per cui si veda “Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma (1868-1915)”, ancora di M. Becchetti) e la grande rivolta – vittoriosa – contro le squadracce fasciste nel 1922. 

foto da www.facebook.com/centrostudimovimenti.parma

Un programma di preteso risanamento concepito già prima del fascismo trova poi compimento negli anni regime per ragioni di ordine pubblico, repressione del dissenso e controllo sociale. 

Lo sventramento di molte zone dell’Oltretorrente, a partire dagli anni ‘30, non fu solo edilizio e articolò lo spazio della città dei decenni a venire con le sue zone di marginalità ed esclusione che integreranno paradossalmente la fase del boom economico.

Impressionante pensare che i tuguri che si vedono in mostra e trovavano sede in zone che non erano nè città nè campagna (Navetta, Cornocchio, Castelletto, via Venezia ecc.) hanno meno di 100 anni e che gli ultimi capannoni sono stati abbandonati nel 1970; in fondo poche generazioni, ma l’impressione è di distanze siderali: noi e loro.
Eppure nel video “Capanòn” di Roberto Azzali, riprodotto a ciclo continuo in una delle sale, possiamo vedere i volti e sentire le voci dei discendenti, di chi nei Capannoni ha fatto in tempo a nascere e a passare l’infanzia. Veniamo così a sapere dello stigma loro impresso dal resto della città, del sentimento di rivalsa, dell’ambivalente senso di appartenenza. E, ad esempio, che i ragazzini si organizzavano in bande per battersi tra simili e contro gli altri, quelli “perbene”. Non ricorda qualcosa: l’allarme baby gang? Le crociate per il decoro? Ancora, il “caso Oltretorrente” su cui si misura il dibattito politico sull’ordine pubblico locale odierno?

foto da www.flickr.com/photos/comuneparma/

L’ultima parte dell’allestimento ci porta nel dopo-capannoni con la progettazione urbanistica dal dopoguerra agli anni ‘70-’80 (zone Sidoli, Montebello, Montanara), le ambizioni di emancipazione e giustizia sociale in parte raggiunte, spesso disattese, in alcuni casi ribaltate rispetto alle intenzioni. Comunque idee di città e convivenza si fronteggiavano; altra dimensione inconcepibile – ancora questo malessere e disorientamento temporale da parte del visitatore…  –  per chi è vissuto nei successivi 30-40 anni.

Spaventoso, infine, un pannello che riporta la relazione del 1929 dell’Ingegner Giovanni Uccelli dell’allora Ufficio Tecnico Comunale. Così vengono illustrati in un documento ufficiale gli indirizzi che porteranno alla costruzione dei primi capannoni: “Questi locali pur rispondendo a tutte le esigenze di salubrità ed igiene, dovranno essere tali da non presentare troppe comodità e da richiedere qualche sacrificio per vivere in essi, così da indurre la famiglia sfrattata a trovarsi un’abitazione più comoda…”. 

foto da www.facebook.com/centrostudimovimenti.parma

Il disagio – pochi metri quadri per famiglie numerosissime, servizi esterni, nessuna fornitura d’acqua, lontananza dal resto della città – era già concepito nel progetto originario quasi con bonomia, con quel misto di competenza e buon senso che anche oggi piace attribuire alla neutralità “tecnica”, alla figura dell’esperto, alla logica del merito. Una ragionevolezza che diventa retorica e parola d’ordine, arruolamento della sana opinione pubblica e suggello ai piani più feroci che, ieri come in questo oscuro presente, si raccontano e appaiono naturali, spontanei, umani.