di Alberto Zanetti
Nel tratto di via Emilia tra Fidenza e Fiorenzuola la pianura si fa ondulata e la campagna si spande in un mare verde ai due lati della strada. Volatilizzati centri commerciali, stabilimenti, distributori, altri segni di produzione e consumo. Miraggio o rivelazione forse dovuta alla pura luce e ai cieli scenografici di questo ventoso 25 giugno, poco padano.
Onde e mare… le parole non affiorano per caso. Arriviamo nella “capitale” della Val d’Arda per un appuntamento atteso: il Moby Dick del Teatro dei Venti.
I due anni pandemici e una messa in scena programmaticamente complessa avevano rinviato l’occasione che ora si compie in un ampio spazio asfaltato – piazza Cavour – ai margini del centro.
Sono attese oltre 1.000 persone: ci sono tutte, anche qualcuna di più. I tempi di accesso si allungano, un’opportunità per guardarsi attorno. Gli addetti ai lavori, gli spettatori professionisti della cultura, se presenti, sono diluiti nella moltitudine di un pubblico comune: cittadini, anziani e bambini, qualcuno capitato per caso, altri che si affacciano dalle finestre dei palazzi intorno, forse turisti…
Ingresso gratuito (come per tutti gli eventi di Nuove Esplosioni – Sciara Val D’Arda Festival) e comincia ad essere aspetto da rilevare in questi tempi spazzati dall’acqua gelida della compatibilità economica.
Ma inizia lo spettacolo con il ritiro dei giganteschi teli bianchi che ricoprono la ventina di metri di palcoscenico. Ci appare quella che intuiamo essere la tolda della nave, in legno (ma potrebbe trattarsi – siamo al principio – del porto della partenza, Nantucket…).
L’equipaggio – una quindicina di persone – irrompe da una via attigua alla piazza. Accade spesso con la Compagnia modenese, come se gli attori fossero un’orda da sogno che giunge improvvisa dal Fuori-Teatro.
Li attendono in scena una serie di otri/barili subito percossi come tamburi. Dal cassero – a sinistra dell’allestimento – la band che suona dal vivo la partitura originale e progressiva: tromba, chitarra e synth, batteria e percussioni.
Come un richiamo il ritmo sonoro accende l’evento. Le botti sono sostituite da secchi (la dotazione del mozzo) e “manici di scopa” che diventano lance e arpioni. Gli attori ci offrono quello che abbiamo imparato a conoscere da questa compagnia: danze, acrobazie, scene collettive.
Una figura è rimasta sotto il palco, quasi mimetizzata tra il pubblico, ieratica e cupa: Achab.
Con il suo ingresso si salpa.
Vengono tirate funi, issati due grandi alberi maestri. Tutto in scena, tutto in diretta: fatica, precisione, rischio; più che scenografia, ingegneria che, alla lettera, edifica – insieme ai corpi mai domi, indaffarati, in movimento – il dramma. Festa, performance, happening: anche i mille in platea ne fanno parte.
A differenza di spettacoli precedenti come “Il Draaago” e “Simurgh”, più spazio al recitato: l’incipit di Ismaele, le invettive di Achab, il “duello aereo” con Starbuck, “secondo” razionale e timorato.
Gli alberi sono occasione di ascesa (fiato sospeso…) e avvistamento: la balena!
Eccola: durante l’arringa del capitano grandi “ossa” di legno vanno a comporsi, grazie ancora al lavoro della ciurma, in un gigantesco scheletro – con testa e coda – che arriva a coprire la lunghezza della nave: Moby Dick e il Pequod coincidono nello slancio verso l’ignoto e la rovina. Effetto notevole: la balena – questa balena – è totem preistorico, il leviatano domina la piazza.
Siamo alla resa dei conti. Ancora grazie allo sforzo collettivo il “mostro” ruota su se stesso. Prima volge il capo perpendicolarmente: punta gli spettatori. Quindi gira ancora per arrivare al faccia a faccia decisivo. In postazione di comando Achab attende. Il volto dell’uomo e quello dell’animale quasi si toccano. Sotto, tra l’equipaggio annichilito, si isola una presenza, tra le mani un violoncello: le sue note malinconiche accompagneranno una catastrofe senza schianti, urla, fragori.
Da Melville sembra di passare a Leopardi: Moby Dick come una sorta di Luna o matrigna Natura in un momento supremo, senza tempo, da Operetta Morale. Con le estreme parole Achab il tracotante, Achab l’empio, Achab il demone intravede al termine del viaggio l’umano e capitola. Poi, silenzio.
Riguadagnando la notte avvertiamo alle nostre spalle che essa è ancora là: più di un’installazione o un oggetto di scena… Di rado passa la balena: per non perderla rimanete vigili.
immagine in evidenza: “Moby Dick” al Nuove Esplosioni Festival – foto di Chiara Ferrin da www.facebook.com/TeatrodeiVenti