di Alberto Zanetti
Tarde visioni notturne nelle “dirette” di Fuori Orario e successive, copiose videoregistrazioni: estraneità, seduzione, tremore. Così a metà dei Novanta – postumi, naturalmente – scoprimmo le più fantastiche storie d’amore (su tutte quella tra Emmi e Alì in “La paura mangia l’anima”), i titoli più belli (“Voglio solo che mi amiate”, “L’amore è più freddo della morte”…), i film più spaventosi (“Martha”, “Le lacrime amare di Petra Von Kant”…), più strazianti (“Un anno con 13 lune”…), più spietati e materialisti (“Il diritto del più forte”…).
Grande, grande Rainer Werner Fassbinder (anche se forse bisognerebbe essere tedeschi e, ancora meglio, nati sotto la RFT, per gridarlo a piena voce): sono quarant’anni senza il genio bavarese che un’overdose tolse di mezzo il 10 giugno 1982. Non pochi, eppure un’era geologica sembra dividerci da una figura uscita, al di là di episodici omaggi, dal senso comune degli spettatori.
Non poteva andare in maniera diversa. Anche se con un’attività forsennata in 37 anni di vita (quasi cinquanta film, una quindicina di pièce) c’aveva messo in guardia sul “pericolo che incombe continuamente, quello di cedere per stanchezza ad una grigia realtà che sembra concepita nella galleria del vento”.
Fassbinder va preso in blocco. Per spiegarlo non basta distinguere l’aspetto cinefilo (la nouvelle vague, il melò e il noir hollywoodiani), sociologico (il 68’ e l’autunno tedesco) o intellettuale (tradizione tedesca, Brecht e avanguardia). Sono solo premesse attraverso cui circola il suo segreto: il binomio luce & inquadratura, le storie e personaggi quotidiani, disperati e folli, la radicale geometria dei sentimenti, il coraggio e l’impazienza, le produzioni in serie, la televisione e il paradossale desiderio del pubblico, la bande à part degli attori/amici/compagni Hanna Shygulla, Ingrid Caven, El Hedi ben Salem, Brigitte Mira, Margit Carstensen, Gottfried John, Kurt Raab… Come sempre Godard coglie il punto: “Fassbinder, che ha fatto solo dei brutti film, o dei film non molto buoni, è stato uno degli ultimi a fare cinema. Non mi piacevano molto i suoi film, ma mi piaceva che li facesse… Quando faceva Maria Braun o cose simili, cinque film esattamente uguali, con gli stessi attori ecc., era del cinema e non c’era bisogno che fossero dei film. Ma si è trovato di fronte a un compito tremendo, da solo a fare il cinema di due Germanie, e ne è morto”. Cinema: ecco forse il nome del segreto, ma la parola ora ha completamente cambiato significato.
Per questo il pianeta RWF è stato scagliato così lontano nello spazio. Distante soprattutto dall’odioso contrassegno dei nostri giorni: l’ironia postmoderna. Violento, tenero, caustico, temerario, scandaloso, gelido, contraddittorio, dissipatore, ma mai ironico, Fassbinder.
E così possiamo riavvicinarlo solo con esercizi di fratellanza e ammirazione. Del resto non si può che venerare chi sceglieva, rispondendo a una domanda su qual era il proprio eroe, il suicida Heinrich Von Kleist “perché è riuscito a trovare qualcuno che volesse morire con lui” o riassumeva la sua perfetta domenica mattina in “caviale, champagne, l’Ottava di Mahler, Radio Activity dei Kraftwerk, il “Bild am Sonntag”, un libro tanto entusiasmante che dispiace finirlo, un amico che sia un buon amico e la possibilità di staccare il telefono”.
In occasione del 40° anniversario della morte di Fassbinder al Cinema Rosebud di Reggio Emilia arrivano a settembre cinque film restaurati e il documentario del 2015 di Annekatrin Hendel.
immagine in evidenza: Rainer Werner Fassbinder