di Alberto Zanetti
La serata da tregenda – piove forte da mezzogiorno – non ferma gli aficionados: Teatro Regio di Parma pieno, caldo e accogliente il 15 dicembre per l’unica data italiana dei Kula Shaker, colpo di scena finale del Barezzi Festival 2022.
Il colore predominante delle capigliature del pubblico – sottoscritto compreso, sia chiaro – conferma che molti dei presenti hanno mandato a memoria “K”, celeberrimo debutto del 1996: pezzi killer sull’onda del britpop che citavano a piene mani i classici di Sessanta e Settanta tra psichedelia, hard e India. Poi un rapidissimo tramonto già a partire dalla seconda prova secondo il copione tipico.
E, invece, i Kula Shaker – pur tra cambiamenti di formazione e lunghe pause – si sono dimostrati genuinamente fedeli a un suono che guarda al passato, ma lo fa con padronanza, gusto e tanto… tiro. Un po’ l’atteggiamento degli stessi fan: dubito che siano moltitudini coloro che hanno ascoltato, possiedono o conoscono tutti gli album della band, ma poi, scambiando qualche chiacchiera a fine concerto, scopro che ci sono patiti, ad esempio, di “Strangefolk” del 2007 di cui ignoravo praticamente l’esistenza. Al di là di feticismo e vintage, ma anche di tendenze e intellettualismi, semplicemente un pubblico che crede(va) nella capacità di una canzone di salvare un’ora, una giornata, addirittura una vita.
Seguo il live – aperto dagli allievi del Conservatorio di Parma con il loro progetto “Barezzi Evergreen” tra sinfonica e pop – proprio dall’ultimo ordine di palchi laterali, vale a dire: affacciato sul palco. Ottimo per la visuale sulla band, meno per la resa sonora. O forse devo solo acclimatarmi: capita quando il rock fa visita a un teatro all’italiana.
Succederà anche ai musicisti? In realtà Crispian Mills – tunica indiana (sherwani?) d’ordinanza – non sembra per nulla intimorito e guida con carisma e dinamismo il quartetto che riaccoglie il tastierista mitologico e lungocrinito Jay Darlington. Anzi, visto qui dall’alto, Mills, con il suo caschetto biondo sembra un ragazzino.
Partono i classici di “K” a cominciare da “Hey Dude” (seguiranno “Into the Deep”, “Grateful When you’re Dead”, “Tattva” in coda…), inframezzati da quelli degli album successivi, tra cui, ad esempio, la sognante “Farewell Beautiful Dreamer” e l’energica “Gingerbread Man” dall’ottimo lavoro pubblicato quest’anno “1st Congregational church of eternal love and free hugs”, lungo quanto il titolo, pieno di magnifiche canzoni, enciclopedico nel ripercorrere “quella musica là” con tutto il suo corredo fricchettone a partire da un’incredibile copertina.
C’è spazio anche per bella cover “Gimme Some Truth” di Lennon, uscita su singolo a novembre, oltre, naturalmente, per un’altra storica interpretazione come “Hush”, il maggiore successo di classifica del 1997, uno dei picchi emotivi della serata.
Ma come fanno giù in platea a rimanere seduti? Con il bis finalmente si alzano. E così il rito si compie: chiude, infatti, “Govinda”, apoteosi con cori alternati tra palco e platea: “Govinda Jaya Jaya, Gopala Jaya Jaya, Radha-ramanahari, Govinda Jaya Jaya…”. Rock’n’roll never die (?).
immagine in evidenza: foto di Elly Contini da www.facebook.com/barezzi.festival