di Alberto Zanetti
In diversi scritti Paul Virilio richiamava una frase del teologo Dietrich Bonhoeffer giustiziato dai nazisti a Flossenbürg: “L’immediatezza è un’impostura”. Concetto che potrebbe sintetizzare l’opera di Luigi Ghirri: operazione di pensiero, sabotaggio della presunta spontaneità del mezzo fotografico, sua reinvenzione; falso che si trasforma in vero, o meglio, in una domanda su di esso; sapere e virtuosismo dissimulati, indipendenza dal determinismo tecnico e sociale; giochi mentali, ribaltamenti di prospettiva; invenzione di un paesaggio che non c’era, non c’è, ma ci sarà…
Per verificarlo basta affrettarsi a visitare “Labirinti della Visione. Luigi Ghirri 1991” a cura di Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta al Palazzo del Governatore di Parma (fino al 26 febbraio, ingresso libero): oltre duecento fotografie dalla raccolta dello CSAC per gran parte appartenenti al ciclo del volume “Viaggio dentro un antico labirinto”, realizzato dal critico e storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle e pubblicato appunto nel 1991. Un grande allestimento la cui illuminazione soffusa consente adeguata immersione e culmina il percorso iniziato con le mostre di Reggio Emilia (In scala diversa ai Musei Civici fino al 26 febbraio) e Modena per il progetto “Vedere oltre” nel trentennale della scomparsa. Un buon antidoto anche per coloro che paventano un’inflazione Ghirri specie in terra emiliana.
Nelle varie sale al corpus principale si affiancano prelievi da progetti ormai canonici (“Colazione sull’erba”, “Paesaggi di cartone”, “Kodachrome”), grandi Polaroid pezzi unici del 1981, dialoghi con gli scatti, tra gli altri, degli amati/studiati Walker Evans, Alinari, Carlo Naya, Bruno Stefani.
A cucire l’insieme un denso apparato di didascalie, dove le riflessioni di Ghirri si alternano e affiancano a quelle di Quintavalle testimoniando, oltre l’affinità elettiva, il fecondo dinamismo di un laboratorio intellettuale a fronte del quale il nostro presente impallidisce.
Prendiamo due citazioni riportate dai pannelli in mostra: «Io sono per l’utilizzo dell’immagine non dico tradizionale, ma in linea con certo modo di vedere. Molto sobria. Preferisco lavorare all’interno di una visione “normale”, sapere che la macchina fotografica ha i suoi limiti, può dire quello che può dire, e ci sono cose che non può dire. Bisogna essere liberi nella testa. (…) La stranezza, il mistero, la diversità, il piccolo scarto li trovo più all’interno di una ripresa normale che non inseguendo la diversità a tutti i costi». E ancora: «… io credo che dietro ai disastri dell’ambiente, a parte i meccanismi insiti in un determinato tipo di sviluppo, via sia una disaffezione – che l’uomo ha sviluppato nei confronti del suo ambiente negli ultimi 30 o 40 anni, alla quale ha corrisposto una fondamentale incapacità di relazionarsi con l’ambiente attraverso la rappresentazione».
Arte sottile, la cui seduzione sembra emergere sotto vesti dimesse, da vapori nebbiosi, dall’effrazione accorta dello sguardo plasmato nella storia dell’arte o nel consumo.
Ma non c’è seduzione senza inquietudine. Ad esempio questa: tante le persone in mostra in un pomeriggio domenicale di metà febbraio, colmo di sole. Sarebbe stato prezioso chiedere: «cosa vedete, cosa sentite, cosa pensate con queste immagini?».
Il timore – o il pregiudizio – è di sentirsi rispondere con un aggettivo: “bello”, “interessante”, “poetico”… Ovvero che si reagisca contro queste foto con una naturalizzazione (spettacolare, culturale, comunicativa…), prendendole come nuove cartoline – graziose, autentiche, assolute – in cui si cancellano i gesti dello straniamento e della demistificazione che, lungi dal deturparle, le avevano liberate. Ghirri saprà difendersi da solo tutto questo? O dovremmo aiutarlo? In che modo?
immagine in evidenza: Luigi Ghirri, Il molo, Trieste, 1980 – Photo courtesy Eredi Luigi Ghirri