di Alberto Zanetti
Lavoro, lavoro, lavoro… Non è il sofferto auspicio di un disoccupato, una rivendicazione sindacale o la sinistra promessa di una qualche istituzione.
La parola “LAVORO” riprodotta in un flusso inarrestabile è la protagonista della fase estrema della vicenda artistica di Remo Gaibazzi (1915-1994), l’artista parmigiano che, partito dal figurativo e transitato per il pop, è approdato a una forma molto personale di astrazione ancora da rivalutare pienamente.
Proprio a questa ultima fase è dedicata la mostra “Variazione nella ripetizione. Gaibazzi e la scrittura nelle arti visive” fino al 24 luglio al Palazzo del Governatore di Parma (ingresso libero).
Ne abbiamo parlato con il co-curatore Andrea Piazza, anche presidente dell’associazione Remo Gaibazzi che l’ha promossa insieme al Comune di Parma con il sostegno di Regione Emilia-Romagna.
Conosciamo e frequentiamo Andrea da anni – dai tempi in cui, a partire dalla fine dei Novanta, ha contribuito alla realizzazione di diversi importanti eventi espositivi a Parma – e ci fa piacere vederlo tornare con un progetto così significativo.
Ci puoi parlare di questo progetto che in realtà è l’esito finale di un percorso iniziato più di venti anni fa?
Un percorso iniziato con il costituirsi dell’associazione, il cui scopo è la promozione e la divulgazione della ricerca artistica di Remo Gaibazzi. La carriera di questo artista ha attraversato fasi diverse e in questi vent’anni circa abbiamo tentato di sondare ogni periodo che ha segnato la sua produzione: Dario Trento parlava di “anime” di Gaibazzi… Questa ultima fase è quella che tende maggiormente alla rarefazione, all’analisi filosofica per immagini. È il momento in cui si dedica completamente alla ricerca verbovisuale con la ripetizione di un’unica parola, LAVORO, ripetuta ossessivamente e, in un secondo momento, all’utilizzo quasi esclusivo della spirale come figura del Tempo.
Hai incontrato personalmente Gaibazzi? Che idea ti sei fatto del personaggio e dell’uomo?
Purtroppo no, non l’ho conosciuto. Chi lo frequentava racconta di un artista che per indole ha scelto di non far parte della scena artistica “mainstream” degli anni ’70-’80 e ha preferito lavorare nella, e sulla, sonnacchiosa provincia. Sempre aggiornato però sugli sviluppi delle ricerche artistiche e delle indagini filosofiche. Per cui me lo immagino così: riservato e abitudinario, attento lettore, ma non isolato, bensì con un gruppo di estimatori che con lui intrattenevano un rapporto di scambio, di dialogo culturale.
Le opere in mostra emergono dall’oscurità, si manifestano con nettezza ed eleganza: che idee vi hanno guidato nell’allestimento?
Seguendo l’idea che less is more, abbiamo cercato di restituire il discorso di Remo senza riempire le sale di opere, per non sovraccaricare la percezione dello spettatore. Del resto questa rarefazione è genetica nel suo stesso lavoro. E poi in almeno due casi, i “grigi” e le “veline” (collocati nelle ultime due sale del primo piano), si tratta di installazioni o, come le definiva lui, “operazioni”, non una semplice sequenza di opere, per cui era necessaria un’esposizione che le isolasse dal resto. Lo stesso Remo induceva a una lettura “lenta”, meditata, dei suoi lavori: il Tempo non solo come oggetto di ricerca da parte dell’autore, ma anche come strumento di lettura da parte dello spettatore.
L’arte concettuale sembrerebbe tendere verso una sorta di sottrazione, di ascetismo, di disinvolta impalpabilità. Allo stesso tempo però, e mi sembra emerga dalla mostra, essa manifesta concretezza, dedizione, ossessione… Che ne pensi?
Il percorso di sottrazione, rarefazione, è molto importante in questa fase finale di “scrittura” dell’immagine, non solo per la riduzione della categoria dei soggetti, ma anche per le scelte stilistiche, ad esempio il ricorso sempre più frequente alla monocromia. Affiorano così altri elementi compositivi come il ritmo, fondamentale nella sua interpretazione derridiana della scrittura. Ma per realizzare queste composizioni ritmiche è necessario un lavoro, per l’appunto, intenso e faticoso. Scendendo nell’aneddotica, se una goccia di sudore cadeva dalla fronte di Remo verso la fine della realizzazione di un’opera, doveva rifare tutto daccapo. Centinaia di parole LAVORO da riscrivere, decine di ore di lavoro da rispendere. La realizzazione di una serialità semantica, come ogni ossessione, richiede sacrificio.
Mi ha colpito il rilievo dato alla dimensione quotidiana, concreta, ripetitiva – degna di una qualche etica zen… – del fare artistico. Una dimensione che sembra molto lontana dal protagonismo odierno… Pensi sia una attitudine che appartiene a un passato irrecuperabile o che possa rappresentare un’ipotesi – magari alternativa e “inattuale” – per il presente?
Quella di Gaibazzi è una inusuale combinazione di meditazione e lavoro operaio: imporsi ogni giorno una quantità fissa di ore di lavoro (già in passato Remo aveva scelto di prezzare le sue opere seguendo il modello remunerativo orario degli operai) e trasformando la durata-lavoro in tempo-lavoro, un lavoro non più imposto dalle logiche dello sfruttamento, ma libero e costruttivo, un lavoro quotidiano dunque non più dedicato alla produzione per il consumo, votato alla creazione e dissipazione di una energia. Però non credo si tratti di un caso isolato. Basti pensare alla produzione di Opalka (con cui tra l’altro esiste una qualche affinità) e all’impegno anche fisico che ha richiesto fino al momento della sua morte e che ha completamente occupato la sua vita dal 1965, o a “One Million Years” di On Kawara, esempi di ricerche totalizzanti, dove per ridefinire un’identità bisogna abbandonare le forme di protagonismo. Esperienze che dimostrano come l’esposizione del quotidiano non debba portare necessariamente, per tutti, ad una spettacolarizzazione dell’io.
Gaibazzi aveva scelto la “provincia”, ma era ben consapevole delle dinamiche artistiche e intellettuali del suo tempo… Questo movimento – dentro e fuori – può essere rintracciato nelle sue opere?
Abbiamo scelto di aprire il percorso espositivo con un’opera appartenente a una fase anteriore rispetto a quella della scrittura, un’opera del periodo vicino alla Pop Art, per evidenziare come gli elementi ritmici tipici della scrittura fossero già presenti precedentemente. Nei lavori di questo periodo si possono riconoscere elementi architettonici di Parma, stilizzati in “sigle” e reiterati compositivamente. Forse questo è l’ultimo momento dove si può riconoscere di primo acchito una appartenenza alla provincia, però già rivisitata, spogliata della sua connotazione identitaria.
Il secondo piano pone a confronto Gaibazzi con contemporanei molto celebri come, ad esempio, Alighiero Boetti ed Emilio Isgrò. Cosa vi ha guidato nella scelta? E, personalmente, quale nome ci segnaleresti tra quelli meno noti?
La sezione è stata curata in modo specifico dal prof. Francesco Tedeschi, che segue da molto tempo la ricerca di Gaibazzi. I dialoghi con le opere di altri artisti sono raggruppati per temi, ogni stanza del secondo piano classifica un argomento comune tra gli autori posti a confronto. Boetti ad esempio per il rapporto tra caso e necessità, Isgrò per la cancellazione della parola. Segnalerei Irma Blank, forse meno nota rispetto, ad esempio, a Isgrò: trovo peculiare il suo riprodurre la scrittura come “sensazione”, espungendo la riconoscibilità della parola, il suo valore semantico, e preservandone il ritmo, il flusso segnico.
Derrida, Foucault, Deleuze, Heidegger e, naturalmente, Marx: la visita della mostra è anche una passeggiata filosofica… Gli artisti possono/devono leggere? O non serve più?
Osservando la tendenza odierna a trasformare in festival culturale qualsiasi input senza approccio critico, direi che leggere non serve. Ma Gaibazzi filosofeggiava con le immagini e questo è anche il risultato di una vita passata tra letture di autori che hanno segnato la storia della cultura. Quindi se un artista vuole rileggere, interpretare, “rifare” la Realtà, anche in senso decostruzionista come sarebbe piaciuto a Remo, allora credo sia fondamentale appropriarsi di strumenti che scardinino le giunture di questo meccanismo.
immagine in evidenza: “Variazione nella ripetizione. Gaibazzi e la scrittura nelle arti visive”, fino al 24 luglio al Palazzo del Governatore di Parma (foto dalla pagina Facebook di Associazione Remo Gaibazzi)